Quello di un’infanzia difficile non è un semplice ricordo da lasciarsi alle spalle, è qualcosa di più profondo che coinvolge l’intera identità e condiziona il modo in cui reagiamo agli eventi in età adulta. Farò una premessa per gli scettici della psicologia; la psicologia non è un’arte, non è fatta di supposizioni ma è una scienza che verte su diverse discipline, prima tra tutte la neurobiologia e in termini più macroscopici le neuroscienze.
Durante l’infanzia si verificano fasi cruciali dello sviluppo del sistema nervoso centrale; un fenomeno noto come “potatura sinaptica” ci renderà più sensibili a determinati stimoli e più resistenti ad altri. Per fortuna il nostro cervello mantiene (per tutta la vita) una forte plasticità sinpatica, ciò significa che allenandolo, è possibile recuperare determinate connessioni.
Un’infanzia difficile non intacca solo «il senso del sé» ma anche la visione che abbiamo dell’intera esistenza, la reattività agli stimoli e, di conseguenza, il sistema comportamentale. Le esperienze lasciano tracce tangibili nella mente, nelle emozioni, nella nostra capacità di provare gioia, di fidarci degli altri e perfino nel cervello e nel sistema immunitario. L’epigenetica studia come i fattori ambientali (come il maltrattamento infantile) possano condizionare l’espressione di determinate porzioni di DNA. Quindi NO, un vissuto difficile non è solo nella mente di chi lo vive, ma è in tutto il suo corpo.
Cosa accade al cervello di chi ha avuto un’infanzia difficile?
«Non ha senso fare distinzioni tra “cervello” e “mente”, in quanto entrambi sono un’unica entità, indivisibili» sono queste le parole di Damasio, neuropsicologo noto per i suoi studi sulle basi neuronali della cognizione e del comportamento (Damasio, 1994). Questa premessa per dire che ciò che succede alla nostra mente ha ripercussioni sul nostro cervello, e ciò che succede al nostro cervello, ha ripercussioni sul nostro comportamento.
L’infanzia è il nostro banco di prova. Se ci riflettete, questo ha logica anche da un punto di vista evoluzionistico. La biologia dell’evoluzione ci dice che i primi anni di vita ci preparano a ciò che dovremmo poi affrontare. Se nei primi anni di vita si verificano abusi, il nostro sistema nervoso centrale si svilupperà per fronteggiare un mondo minaccioso. Ecco che la nostra centralina della paura (l’amigdala, anche sede delle memorie emotive e soprattutto delle memorie traumatiche) diventerà più attiva, più sensibile agli stimoli esterni.
Le ricerche hanno dimostrato che vivere esperienze che richiedono un grosso investimento emotivo, può far cambiare il nostro sistema di memoria, migliorando le connessioni tra amigdala e striato dosale e indebolendo le connessioni tra amigdala e ippocampo.
Che significa questo? Una migliore connessione tra amigdala e ippocampo favorisce una memoria cognitiva, meglio centrata sui ricordi, sulla memoria autobiografica, un tipo di memoria che può coinvolgere la corteccia prefrontale (e quindi la riflessione, il ragionamento). Quando a prevalere è la connessione tra amigdala e striato dorsale, iniziamo a funzionare per apprendimento condizionato, funzioniamo per associazioni. I vissuti difficili esperiti durante l’infanzia producono una ritaratura del sistema d’allarme del cervello, un’alterazione che mina la capacità di discriminare le informazioni minacciose da quelle neutrali, a scapito della possibilità di vivere spontaneamente.
Cosa si intende per infanzia difficile
Quella del trauma viene definita «l’epidemia nascosta». Sono molte le forme d’abuso a cui i bambini vengono esposti. La più comune è indubbiamente il neglet (una forma di trascuratezza emotiva), in cui i genitori sono incapaci di prestare le dovute attenzioni ai figli.
Il primo a parlare di neglet fu Ferenczi (psicoanalista di fine ‘800), definendolo come «qualcosa che doveva essere fatta ma che non è stata fatta»causando così un trauma mediante una sorta di omissione (quella mancata accettazione, quel torto subito e mai riconosciuto, quelle mancanze di stima e fiducia), mediante la mancanza di contenimento e di sintonizzazione emotiva da parte del caregiver (figura di attaccamento).
I traumi non sono sempre così silenziosi. In Europa, sono circa 21 milioni le donne che hanno subito una forma di abuso o violenza sessuale da parte di un adulto prima dei 15 anni: secondo l’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti fondamentali, il 67% degli abusi non producono atti ufficiali, pertanto emergono solo 3 casi su 10. Una ricerca sulla popolazione statunitense, condotta dai Centers for Disease Control and Prevention, ha rilevato:
- un adulto su cinque ha subito qualche forma di molestia sessuale o abuso da bambino
- uno su quattro è stato picchiato da un genitore tanto da riportare ferite visibili
- una persona su quattro è cresciuta con genitori alcolisti
- uno su otto ha assistito al pestaggio della propria madre
E’ chiaro che l’entità del trauma può generare effetti diversi, ma in ogni caso ciò che viene compromessa è la reattività agli stimoli e, a livello interpersonale, la capacità di costruire relazioni stabili e fiduciose. In linea generale, vediamo quali sono gli atteggiamenti di chi ha avuto un’infanzia difficile che possono essere spiegati dalle più recenti scoperte in ambito neuroscientifico e dalle più accreditate teorie psicoanalitiche.
Non si fidano degli altri
Esperienze precoci di trascuratezza e abuso interferiscono con lo sviluppo di unsano senso di fiducia nel prossimo. In fondo, se proprio tua madre e/o tuo padre, le persone che più di tutte avrebbero dovuto proteggerti e amarti, ti hanno ferito, figuriamoci cosa potrebbero fare “gli altri”. Questo è un apprendimento che si fissa nella mente (e nel cervello) mediante un fitto network neurale con quello che in neurobiologia si chiama potenziamento a lungo termine.
Gli altri sono vissuti come distanti da sé, inefficaci nel dare conforto. La distruzione della fiducia nei confronti del caregiver riesce a generare una sfiducia epistemica generalizzata (Fonagy, 2001).
Hanno difficoltà a controllarsi
In molti casi, chi ha avuto un’infanzia difficile è poco abituato a usare la corteccia prefrontale, così sarà portato ad agire impulsivamente. Queste persone hanno difficoltà a contare fino a dieci prima di agire, perché vedono un’elevata reattività agli impulsi, soprattutto se questi minacciano il senso del sé (già esile e messo a dura prova dagli eventi). Chi ha avuto un’infanzia difficile non è una persona difficile, è solo una persona che ha bisogno di allenare la sua corteccia prefrontale.
Tendono ad autocolpevolizzarsi
Il neglet può innescare un trauma cumulativo difficile da riconoscere e che getta le basi per un complesso processo di autocolpevolizzazione (poiché l’adulto non è consapevole di aver subito un trauma, inizia ad autocomplevolizzarsi e a ritenersi inefficiente, attribuendo a se stesso la causa di ogni difficoltà). Questo meccanismo s’innesca anche in caso di traumi espliciti, quando la vittima non vuole riconoscersi nel ruolo di vittima.
Non capiscono il caos che hanno dentro
Molti studi di neuro-imaging condotti su pazienti traumatizzati, hanno evidenziato un’attività alterata dell’insula. L’insola è una struttura che interpreta e integra gli input ambigui inviati dagli organi interni e dal sistema propriocettivo. L’alessitimia, il non essere in grado di comprendere, percepire e comunicare ciò che si ha dentro, è la conseguenza di questa alterazione.
Hanno una bassa tolleranza allo stress
La ricerca ha dimostrato che esperienze avverse durante l’infanzia causano un incremento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Con gli studi pionieristici di Seymour Levine è stato dimostrato come i topini che ricevevano più cure materne (toelettatura, leccate, allattamento al seno, vicinanza materna…) mostravano una ridotta reattività emotiva e neuroendocrina ai comuni fattori di stress in età adulta. Successivi studi di DNA Microarray, hanno dimostrato che questi topini avevano beneficiato di un effetto epigenetico, la demetilazione di un residuo di cisteina del promotore del gene GRr. Che significa? Che questi topini, allevati nella sicurezza e nell’amore, avevano molti recettori (nell’ippocampo) per i glucocorticoidi, il che garantiva una buona stabilità emotiva e zero sintomi ansiosi (per un complesso meccanismo neurobiologico a feedback).
Al contrario, gli esemplari allevati in situazione di trascuratezza emotiva, presentavano un’elevata reattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), quella che induce la produzione di ormoni dello stress. Negli esseri umani, oltre alla reattività dell’asse HPA, negli adulti con un passato di deprivazione, sono stati rilevati anche bassi livelli di serotonina e un maggiore rischio di sintomi ansiosi.
Si annoiano facilmente
Chi vive esperienze di deprivazione o trascuratezza emotiva (elementi tipici di un’infanzia difficile) ha una ridotta finestra di tolleranza (Siegel, 1999). I fattori che seguono sono correlati al sistema di ricompensa e ad altre strutture sottocorticali. In sintesi, chi ha vissuto esperienze avverse durante l’infanzia:
- sarà più facile alla noia
- soffrirà più facilmente gli effetti di eventi stressanti come scadenze o la fila al supermercato
- avrà un rischio maggiore di sperimentare apatia e senso di vuoto
- tenderà ad assumere comportamenti disfunzionali per stimolarsi o sedarsi