La Sindrome della capanna trova terreno particolarmente fertile in questo periodo storico in cui, per il Covid-19, è molto frequente l’isolamento
La Sindrome della capanna, chiamata anche Sindrome del prigioniero, non è attualmente inserita nei principali sistemi nosografici usati in ambito psicologico e psichiatrico anche se, in tempi recenti, si è trasformata in un argomento di notevole interesse per la comunità scientifica, rivelandosi un’innovativa prospettiva di ricerca per il futuro.
La diffusione del Coronavirus, che nel 2020 ha prodotto una pandemia a livello globale, ha reso necessaria l’adozione di drastiche misure restrittive da parte di molti dei paesi coinvolti nel tentativo di tutelare il più possibile la salute dei cittadini e mantenere sotto controllo l’espansione di COVID-19. La popolazione ha vissuto l’esperienza di uno o più lockdown, che hanno dato origine ad una forma di isolamento “protettivo”, durante il quale le occasioni per uscire fuori dalla propria abitazione sono state limitate a favore di un aumento del tempo trascorso tra le mura di casa. Durante questo periodo di confinamento, che è durato anche svariate settimane a seconda dei casi e dei contesti, sono cambiati numerosi aspetti della nostra vita: abitudini, modalità di lavoro, didattica scolastica e universitaria e approcci relazionali. Ma cosa è accaduto quando, terminata la fase di lockdown, è stato possibile riprendere nuovamente contatto con l’esterno? Molti studiosi hanno introdotto il concetto di Sindrome della capanna.
Sindrome della capanna: che cos’è e come si manifesta?
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